lunedì 20 dicembre 2010

Riflessioni sulla Legge Gelmini, e sui rapporti docenti/studenti

Maurizio Matteuzzi

§ 1 – La ricerca come bene pubblico

La Legge riprende come assunto di base, o come implicito criterio ispiratore, la parola d'ordine dell'efficienza, che si misura sulla spendibilità, sul ritorno economico. Senza dubbio questi tratti sono importanti, e sono da perseguire qualora non confliggano con più alti interessi. Il punto è che questo conflitto non ha carattere ipotetico ed eventuale, ma si presenta prepotentemente, in specie in un periodo di scarsità di mezzi: perché privilegiare una ricerca non si può fare, entro un ambito di spesa predeterminato, se non a danno di una qualche altra ricerca. Vediamo allora perché i criteri sopra richiamati non possono informare la ricerca nella sua accezione più alta.

In primo luogo, una ricerca ispirata al ritorno economico non può che pensare a breve termine. Che interesse potrebbe avere un operatore privato a una ricerca di durata, poniamo, ventennale? Ma in questo modo verrebbero cancellate ricerche fondamentali per il genere umano. Ci sia consentito un solo esempio. La missione Apollo, che ha mandato l'uomo sulla Luna. Dal 1979 a oggi, che ritorni economici ci sono stati? Dovremmo allora dire che è stato un errore finanziarla?

In secondo luogo, una prospettiva di questo tipo non potrebbe mai essere rivolta a risultati di impossibilità. E' credibile che un operatore privato trovi adeguato uno sforzo economico per ottenere non un qualche risultato in positivo, ma la dimostrazione che una certa via non è percorribile? Eppure grandi conquiste della conoscenza umana sono proprio risultati di questo tipo, cioè di impossibilità. Anzi, da un punto di vista logico, un risultato di impossibilità è di solito più fondamentale, e di più difficile raggiungimento, di un risultato positivo. Volgendoci al secolo scorso, non possiamo non constatare che le massime conquiste della scienza sono state di questo genere. Basti pensare al teorema di Goedel in matematica, o al principio di Heisenberg in fisica. Così come, precedentemente, risultati di impossibilità di enorme importanza furono anche il teorema di Ruffini-Abel, o il teorema fondamentale di Cantor per l'analisi dei transfiniti. Un risultato di impossibilità sposta la direzione di tutta la ricerca scientifica futura: apparentemente non ti dà niente, nell'immediato; ma in realtà sta spostando enormi investimenti da una direzione ad un'altra per tutti i secoli venturi.

Infine, in terzo luogo, consideriamo l'aspetto etico. Se si deve valutare la linea di indirizzo sul beneficio di mercato, allora è meglio cercare un farmaco che guarisca il paziente da una malattia, o uno che ne prolunghi la sofferenza? Anche qui si può ricorrere ad un esempio banale: una multinazionale che faccia grandi guadagni sulla fornitura di farmaci chemioterapici avrà più interesse a prolungare la fase di malattia o a guarire il cancro? Lo stesso discorso vale per la guarigione delle malattie rare, che non spostano i grandi numeri. Dobbiamo rinunciare alla salute perché l'investimento in ricerca non è remunerativo?

In generale, si dovrà prima o poi capire che la ricerca si articola nella così detta ricerca di base, che crea le strutture portanti del progresso scientifico, ne alimenta cioè le radici, e nella ricerca applicata, che è tesa a coglierne i frutti. Pare abbastanza evidente che non si può affossare la prima a beneficio della seconda, senza determinare, nel medio/lungo periodo, il rinsecchirsi e il definitivo morire della pianta stessa. Il modello anglosassone, americano in specie, è sovente citato a paradigma; ma è citato a sproposito: negli Stati Uniti i fondi pubblici immessi a favore della ricerca fondamentale sono incomparabili con i nostri, dell'ordine del 3% del PIL, a confronto di uno strimilzito 1% dell'Italia, lontanissima dalla media dei Paesi Europei.


§ 2 – La misurazione dell'efficacia dell'insegnamento

Si è sentito molto, nei dibattiti relativi alla Legge Gelmini, illustri parlamentari citare come uno scandalo l'esistenza di corsi con pochi studenti. Misurare la bontà di un insegnamento sulla numerosità dei frequentanti, o sul numero dei laureati in quel corso di laurea, è una visione molto aziendalistica, ma profondamente errata. Seguendo questa prospettiva, in breve tempo molte materie di estrema importanza sparirebbero. Le materie più facili prevarrebbero su quelle più ostiche. Gli insegnanti più rigorosi sarebbero svantaggiati rispetto ai colleghi “di manica larga”. Si creerebbe una situazione di analfabetismo dei nostri laureati rispetto a cognizioni di base. Anche qui gli esempi sarebbero infiniti. E' chiaro che certi corsi di laurea, che aprono la strada a professioni molto remunerative, avrebbero un immediato successo di pubblico; ma forse è meglio riflettere sul fatto che i requisiti di base non dipendono dal mercato, ma dalla logica interna, e dalla coerenza della disciplina stessa: un dentista molto abile a curare la carie, ma che provoca uno shock anafilattico al paziente otterrà un uomo con i denti sani, ma con il deprecabile limite di essere un po' morto. E' facile capire che spetta a chi ha la competenza medica determinare quali siano le materie fondamentali, da cui non si può prescindere, e in che ordine vadano assimilate, per determinare chi sia un buon medico, e non a chi guarda alla spendibilità economica immediata. Certo, materie come il Sanscrito non avranno mai i grandi numeri; ma che pensare del livello della ricerca linguistica in un grande Ateneo, in cui mancasse completamente quella competenza?

Questo naturalmente non vuol dire che non si voglia, e, anzi, non si debba, stimolare gli studenti verso quelle professionalità che rappresentano una reale esigenza sociale. E' compito della politica dell'istruzione favorire lo sviluppo di certi esiti; ma è compito dello scienziato determinare quali competenze debbano necessariamente corrispondere a certe professionalità.

E' purtroppo vero che esistono accademici che si giovano di una rendita di posizione, e pongono scarsa attenzione ai loro doveri d'ufficio, tutelati dalla intangibilità del loro ruolo. Sulla necessità di un impegno prolungato e controllabile si ha una convergenza di assenso generale di chiunque abbia a cuore il mondo della ricerca, e in particolare della stragrande maggioranza del corpo accademico. Tuttavia il fatto di ricondurre la valutazione della ricerca a una serie di tabelle a numeri precostituiti è una banalizzazione ingenua e pericolosa. Anche qui si vede che il legislatore ha in mente la ricerca applicata, e in specifiche discipline, mentre è sordo ai veri tratti della scienza.


§ 3 – I ragazzi che non trovano lavoro

Durante un incontro con alcuni studenti impegnati politicamente, ho sentito qualcuno di loro lamentarsi che questa università non li prepara al lavoro. Il tema, come ben si capisce, è assai rilevante. Il grande disagio della entrante generazione, entrante, dico, nel senso di essere sul punto di affacciarsi al mondo del lavoro, è dovuto anche, e in che misura, all'università e a come essa è fatta? Senza dubbio molto si potrebbe dire, in bene e in male, su come è fatta l'università, e su come essa prepari, o non prepari, i ragazzi alla sfida, tutta diversa, per un certo verso, ma tanto uguale, per un altro, al fervore degli studi. Ma credo che all'origine del disagio ci sia un fraintendimento. Chi segue bene gli studi, con doti e impegno, e si ritrova a non riuscire a incassare per il suo investimento, certo non può che sentirsi defraudato, ingannato dai maestri. All'origine del patto formativo che tacitamente si stringe tra allievo e maestro vi è un imperativo ipotetico: SE farai così e così, ALLORA ... Il punto è: come va riempita la sospensione dopo l'ALLORA? Ecco, le due mentalità, del discente e del docente, qui forse, ora, in questo drammatico frangente, non si capiscono fino in fondo. Il completamento naturale, e parte magistri, non può che essere ALLORA io ti promuovo, ti omologo, ti do trenta et similia. Nell'aspettativa dell'altra parte, viceversa, il telos si riempie di molto di più: tu, vecchio barbogio, rappresenti per me l'establishment, il potere, ciò che in passato si è già costituito; tu non puoi limitarti a darmi un trenta, o un altro pannicello caldo, tu mi devi omologare nel tuo sociale, devi inserirmi, spartire con me i tuoi privilegi. Come si vede, la divaricazione è drammatica.

Secondo una certa lectio, universitas dovrebbe stare a significare là dove si studia insieme, dove il rapporto è fra adulti. Ora, qui è necessario che i due personaggi, l'insegnate e lo studente, la personificazione del vecchio accademico e quella del giovane rampante, si parlino chiaro, da adulto a adulto, da “uomo a uomo” (un neoplatonico direbbe forse da eone a eone, un cultore della rete da avatae a avatar …): certo, l'insegnante è nel mondo, dove mai potrebbe essere? ma non è il padrone del mondo; non si porta sulle spalle il mondo; non ha responsabilità del mondo, e di tutti i mali del mondo: nessuno avrebbe le spalle tanto larghe. Qui viene in aiuto la teoria dei tratti semantici di Gremas. Tentando di scomporre in costituenti elementari il significato, Greimas individua ad un livello più fine della consolidata corrispondenza nome/cosa la nozione di tratto. Tale scomposizione è intesa a rendere ragione di relazioni di affinità o di contrapposizione tra i termini altrimenti apparentemente arbitrari; di apparentamenti, similarità, o vogliam dire analogie, o viceversa contrapposizioni, che noi pure sistematicamente percepiamo, senza che se ne possa dare esplicita ragione. Analizzando capouffico e padre, ad esempio, ritroveremmo +autorevole +maschile +che premia/castiga (il segno + indica naturalmente la presenza, all'inverso il -). Allora il fraintendimento è questo: nella percezione che lo studente ha dell'insegnante, è ovvio che compaia un tratto di potere sul mondo che viceversa non c'è. E questo rischia di far nascere un conflitto là dove non ci deve essere: il disagio del giovane tende a passare in modo naturale dalla messa in mora dei modi e dei contenuti della formazione, alla critica del mondo e della sua organizzazione, del precariato, dei diritti negati, dell'accesso al mondo della ricerca reso quasi impossibile, della sperequazione sociale … Tutto ciò è sacrosanto, ma appartiene a un dialogo diverso, in cui si deve introdurre un nuovo personaggio, un personaggio che qui non c è.

Torno al concreto. I ragazzi non trovano lavoro non perché l'università sia fatta male, ma perché le aziende non assumono; anzi, mettono in cassa integrazione, o licenziano. La contestazione avrebbe senso in un'altra situazione: se l'azienda, in fase di crescita, ossia quando avesse bisogno di una certa professionalità, dovesse andare a cercarla altrove, ad esempio all'estero. Ma non è affatto così. Se all'azienda tornasse il conto di assumere un ingegnere, ma si crede davvero che non lo farebbe? Certamente sì. Controprova: occorrono molti casi in cui un laureato, dopo pochi mesi dall'assunzione, viene licenziato perché non sa fare quel lavoro, non ha la competenza per apprenderlo? A fronte di questa situazione sì che ci sarebbe da aprire una analisi severa su come prepara l'università. Ma questo caso teorico, sinceramente, io non l'ho mai incontrato. Aggiungo che una azienda di un certo livello vuole dall'università persone con una solida base, e pronte ad apprendere velocemente ed efficacemente un certo know-how, e a saperlo aggiornare o anche inficiare e sostituire celermente; ma tale know-how glielo vuole dare essa stessa, non si aspetta, e non gradirebbe, che fosse delegato all'università. Non mi dilungo su questo aspetto, che meriterebbe un'analisi molto più profonda e dettagliata sul concetto di “conoscenza” in sede di azienda, tema sul quale circolano molte false credenze.

In conclusione, ecco, si dovrebbe capire che i nostri due personaggi, lo studente e l'insegnante, su questo problema dovrebbero smettere di dibattere in forma antitetica, e invece fondersi in un unico nuovo soggetto, per individuare il vero interlocutore, e stigmatizzarne le responsabilità. E, probabilmente, la prima cosa che essi, divenuti un tutt'uno, farebbero, e mi auguro faranno, è di rimandare al mittente questa pessima legge.